di Chiara Di Clemente (quotidiano.net, 23 aprile 2021)
Potrebbero essere gli Oscar dell’orgoglio nero. Anticipando di fatto l’avvicinamento dell’Academy all’istituzione di norme inclusive delle minoranze che tanto hanno fatto discutere nei mesi scorsi, e soprattutto facendo proprie le dirompenti istanze del Black Lives Matter, mai come quest’anno tra i candidati nelle categorie più importanti la presenza “nera” si rivela imponente (senza dimenticare che è nero il protagonista del cartoon Disney destinato a vincere, Soul). Certo, se poi le statuette (cerimonia domenica 25 aprile a Los Angeles, in Italia nella notte tra il 25 e il 26 in diretta su Sky e su Tv8 dalle 00:15) finiranno in mani bianche, il valore delle scelte dell’Academy per le nomination apparirà comunque dimezzato. Ma in queste ore è ancora lecito pensare che una rivoluzione sia possibile.
Di rivoluzione è impregnato il film più importante dell’orgoglio nero agli Oscar 2021: Judas and the Black Messiah (visibile in Italia su Sky e altre piattaforme a pagamento), sei candidature. Ispirato a una storia vera e inframezzato da filmati di cronaca (come Il processo ai Chicago 7, altre sei nomination), ambientato a Chicago tra il 1968 e il ’69 (come Il processo ai Chicago 7), è un film che mescola con mano sicura storia, politica e spettacolo, e che trova i punti di maggior impatto emotivo in due scelte narrative: quella – idealista – che sottolinea le parole di lotta del protagonista, il leader ventunenne delle Pantere Nere Fred Hampton (interpretato Daniel Kaluuya, lanciato dall’horror Scappa!, già molto premiato per questo suo nuovo ruolo), e quella – tragica, inquietante, lacerante – incentrata sul tradimento di Fred ad opera di un ladro d’automobili nero senza scrupoli (William O’Neal, interpretato da Lakeith Stanfield), infiltrato nel movimento dall’Fbi, per espressa volontà di J. Edgar Hoover (un crudele e invecchiatissimo, quasi irriconoscibile, Martin Sheen).
Solo la candidatura di Judas and the Black Messiah tra i miglior film è una rivoluzione: è la prima volta che accade per un’opera prodotta completamente da un team nero. Ce l’ha fatta grazie al genio di Ryan Coogler, regista del primo Creed e del kolossal Marvel dai superincassi Black Panther, che ha utilizzato il potere di acquisito con questi film per realizzare la pellicola che sognava da anni. E la cui realizzazione e la cui uscita adesso, in pieno Black Lives Matter, appare come la risposta all’urgenza più pressante nella società e nella politica statunitense che ancora vive del post-Trump. “Revolution is the only solution”, la rivoluzione è l’unica soluzione, gridano non solo le Pantere Nere di Fred, ma anche tutte quelle “minoranze” – portoricani, patrioti bianchi poveri – che il carismatico Hampton riesce a radunare intorno al suo movimento di protesta, tra il 1967 e il ’69 a Chicago. “La ribellione la creano le condizioni, non gli individui”, dice Fred Hampton. E ancora, le sue parole sono pietre scagliate sulla coscienza dello spettatore durante tutto il film: “La differenza tra riforma e rivoluzione è che con la riforma il padrone ti insegna a diventare uno schiavo migliore”; “Dove alcuni vedono disperazione io vedo il punto zero della rivoluzione”; “Se ti chiedono un impegno a vent’anni e dici sono troppo giovane per morire, tu sei già morto”; “Se non osi lottare, non meriti di vincere”; “Non è questione di violenza o non violenza, è questione di resistenza al fascismo o di resistenza nel fascismo. Puoi ammazzare un rivoluzionario che lotta per la libertà ma non la libertà”.
Una “costola” di Judas and the Black Messiah è un altro film tutto orgoglio nero che rischia sul serio – e a ben diritto – di mangiarsi un’altra bella fetta della torta degli Oscar. Si tratta di Ma Rainey’s Black Bottom (in Italia su Netflix): tra le cinque nomination mancano quelle al film o alla regia – e a dirla tutta è anche giusto così, visto che l’opera diretta da George C. Wolfe da un punto di vista registico non ha poi questi guizzi clamorosi – ma pesano tantissimo quelle all’attrice e, soprattutto, all’attore protagonista. Nei panni di Ma Rainey, ovvero Ma Gertrude Rainey, cantante blues realmente esistita (Columbus 1886-1939) c’è la grandiosa Viola Davis (già Oscar come migliore non protagonista per Barriere, 2018), qui scatenatissima: grazie al suo talento Ma Rainey sa che tiene in pugno i bianchi che l’hanno chiamata a una sessione di registrazione di un disco, che è l’unico tempo nel quale si svolge l’intero film. Sa che tiene in pugno tutti, compresa la ragazza sua amante, e non si fa velo d’essere arrogante, insopportabile nel comportamento, anche se quando poi attacca a cantare è esattamente come dice lei nel film: “non canti per stare meglio, canti perché in quel modo comprendi la vita”.
L’asso agli Oscar di Ma Rainey’s Black Bottom è però Chadwick Boseman: l’attore che interpretava, diretto da Ryan Coogler, il supereroe Black Panther e che, morto a soli quarantaquattro anni nell’agosto del 2020, è ora candidato, postumo, tra i migliori protagonisti. Della sua performance in Ma Rainey’s Black Bottom vale un Oscar pieno solo il monologo con cui risponde ai colleghi neri più anziani, membri dell’orchestrina jazz che accompagna Ma Rainey, che lo accusano di essere troppo servile nei confronti dei discografici bianchi, e soprattutto di essere un uomo senza Dio. “Dio non ascolta mai le preghiere dei neri, Dio se ne frega di quelli come noi, Dio odia i neri, li odia con tutta la furia che ha, Gesù non ti ama amico, Gesù odia il tuo culo nero e non raccontarmi stronzate che brucerò all’inferno, perché Dio può andare a farsi f*****e”. Discorso che così, estrapolato dal contesto, suona blasfemo ma che nell’interpretazione di Boseman (la madre del suo personaggio, nel film, è stata violentata da sei bianchi; il padre ha preparato per una vita la vendetta verso di loro, e da loro è stato ucciso) è rabbia e dolore e disperazione allo stato puro. Se poi ci fermiamo a pensare che sul set di quel film, mentre recitava quelle parole, Chadwick, malato di tumore dal 2016, sapeva probabilmente già di essere condannato ad andarsene di lì a poco, ecco, se quello è il suo testamento, è davvero l’unico testamento possibile di una vera Pantera Nera.
Ricapitolando le nomination “black”, per gli attori, vanno tra i protagonisti a Chadwick Boseman e tra i non protagonisti ai due di Judas and the Black Messiah, Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield, più Leslie Odom Jr. per Quella notte a Miami… (altro film nero, tre nomination: racconta l’incontro di Cassius Clay con Malcolm X ed è diretto dalla regista nera Regina King). Per le attrici, le nomination vanno alle protagoniste Viola Davis e anche a quella che è data come possibile vincitrice, Andra Day, per The United States vs. Billie Holiday, diretto da Lee Daniels, ovvero la vera storia delle persecuzioni dell’Fbi contro Lady Day e la sua Strange Fruit come canzone di protesta anti-linciaggio. Il film – che cancella con un colpo di spugna tutta la mielosità dell’antico biopic del ’72 su Billie con Diana Ross – tocca anche la relazione di Holiday con l’attrice Tallulah Bankhead. “È un simbolo di libertà, di uguaglianza”, ha detto l’attrice Andra Day, già premiata per questo ruolo col Golden Globe: “Non rappresenta solo i diritti civili e la comunità nera, ma anche quella Lgbtq+. Rappresenta quasi tutti i gruppi più emarginati”. E così gli Oscar 2021 fanno bingo. Anzi, bingo black.